“Rebibbia Lockdown”, Paola Severino intervistata dal “Corriere della Sera”: la macchina da presa per raccontare il carcere nell’era Covid-19

Paola SeverinoPaola Severino

Il tema della legalità dibattuto in un’aula dell’Università di Santa Maria Capua Vetere stracolma di partecipanti. Era nato così Rebibbia Lockdown, docu-film diretto da Fabio Cavalli e sviluppato da un’idea della Vice Presidente dell’Università Luiss Guido Carli Paola Severino.
Proprio da quell’aula universitaria, 20 anni fa, partì infatti un filo rosso capace di unire mondi spesso molto distanti tra loro: “Capii che proprio in contesti difficili i giovani vogliono parlare di legalità”, racconta Paola Severino in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”. “Pensai di introdurre nella Luiss un progetto in cui gli studenti diventassero ambasciatori di legalità nelle scuole delle zone più disagiate e nelle carceri”, un’iniziativa nella quale i giovani potessero parlare ai coetanei “di quanto ‘il rispetto della legge ti faccia sentire in pace con te stesso e con il mondo’, come mi disse un detenuto. Frase emblema del nostro programma che ora ha 150 studenti volontari. L’idea del docu-film è venuta a loro”.
Ma la pandemia scoppiata nel 2020 e il conseguente lockdown hanno in qualche modo cambiato le carte in tavola. “I ragazzi mi hanno chiesto: ‘Che facciamo? Ci fermiamo?’. Ho risposto che avremmo trovato un modo”, prosegue la Vice Presidente della Luiss, che sottolinea inoltre come proprio il lockdown abbia rappresentato “la chiave” in quella complicata situazione. “Toccati dalla solitudine i ragazzi sono diventati più sensibili. E hanno capito. Il lockdown è stato un filo rosso che ha legato le nostre e le loro vite” in una sorta di collegamento che ha agevolato i detenuti nel raccontare i propri drammi ai ragazzi. Un filo rosso a tratti non aspettato o per lo meno “non con tanta forza e profondità”, spiega Paola Severino, aggiungendo: “Penso che ciascuno dovrebbe avvicinarsi alla realtà del carcere per comprendere il senso della espiazione e della rieducazione”.
Una riflessione poi sull’importanza del riconoscere l’umanità anche nel contesto carcerario: “Un detenuto di Cagliari mi raccontò che dopo aver espiato la prima pena, sposato e con una bambina, cercò disperatamente lavoro. Invano. Tornò a fare ‘l’unico mestiere che conosceva: il ladro’. Da queste esperienze ho tratto l’idea di creare una Fondazione che ha tra l’altro il compito di trovare lavoro ad ex detenute e dare tutela legale gratuita ai più bisognosi”. Per la Vice Presidente della Luiss, l’insegnamento è stato quello di “imparare a vedere l’umanità dietro le sbarre e non considerarla ‘altro da voi'”.
Presentato in anteprima al Festival di Venezia 2021, Rebibbia Lockdown porta dunque la macchina da presa nel carcere e ne fornisce uno spaccato nell’era della doppia reclusione dovuta al Covid-19. Un periodo di forte sofferenza manifestata anche con malcontento, disordini ed episodi come quello dei pestaggi a Santa Maria Capua Vetere. “Il racconto di quei giorni di rivolta ci è stato fatto da tutti coloro che abbiamo incontrato a Rebibbia”, racconta Paola Severino: “Detenuti, agenti, educatori non hanno taciuto la drammaticità di quei momenti, in cui da un lato ‘nessuno voleva fare la fine del topo’, dall’altro gli agenti avevano il dovere di contenere le proteste e le tentate evasioni. Facendolo però ‘con lealtà’, come ci ha detto un ispettore penitenziario”.
A Santa Maria Capua Vetere quella lealtà è venuta a mancare “nei confronti del giuramento di fedeltà alle istituzioni e verso la dignità umana, cui invece si ispirano i tanti custodi del carcere nello svolgimento di compiti difficili e spesso ignorati”, così l’ex Ministro della Giustizia, che riporta inoltre un aneddoto: “A Rebibbia mi ha colpito quel detenuto che era fuori per un permesso premio proprio nel giorno della rivolta e si è affrettato a rientrare perché, dice: ‘Lo dovevo a quel giudice. Mi aveva dato fiducia. Sembrerà un paradosso ma quando sono rientrato mi sono sentito l’uomo più felice del mondo'”.
Un’ultima domanda, infine, per raccontare se nel docufilm abbia prevalso lo sguardo di Paola Severino ex Ministro della Giustizia, avvocato oppure docente. “Credo di essere sempre me stessa. Già a 8 anni volevo difendere gli altri, per senso di giustizia”. Da Ministro della Giustizia, aggiunge, “mi sono sentita responsabile del sovraffollamento carcerario, fino ad affrontare le contestazioni di Strasburgo e a vincere con una serie di misure deflattive che volli verificare visitando numerose carceri”. Da avvocato riporta invece l’esempio di “una detenuta rom con il suo neonato, accusata di aver ucciso un uomo che invece era morto di infarto, come riuscimmo a provare”. La Paola Severino Professoressa universitaria, infine, conclude rimarcando l’importanza del “trasmettere ai ragazzi un’idea concreta del carcere, delle tante cose che ciascuno potrebbe fare per migliorarlo”.

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